lunedì 16 dicembre 2013

Il profumo delle arance di Carlo è rimasto attaccato alle mie mani, resistendo all'odore chimico del detersivo dei piatti e della cera dell'estetista.
Ne ho sbucciate e mangiate due, appena arrivata a casa, giusto il tempo di riprendere fiato dopo aver fatto due piani a piedi con la cassetta piena zeppa che mi segava le dita, e la loro essenza mi si è incollata addosso.

Hanno un buon sapore, le arance di Carlo.
Buono come il suo sguardo limpido e sincero e come l'aria che si respira a casa sua.
Una casa tranquilla, pulita, ordinata, nelle campagne di Gabella, dove ogni cosa occupa un posto preciso, e le persone conoscono esattamente qual'è il loro ruolo e lo portano avanti senza dubbi o esitazioni.
Le due ragazze sedute composte intrattengono l'ospite conversando come signorine di altri tempi. 
La moglie si vede dal piglio che ha che è quella che dirige la baracca, ma restando sempre un passo dietro al marito, cui tocca il ruolo indiscusso di capo della casa.
E lui, il capo, travolto dalle chiacchiere di quattro donne, ogni tanto annuisce quando qualcuna lo chiama in causa, altrimenti ascolta silenzioso. 
Ma lo senti, lo capisci, che è il centro della casa, il perno attorno al quale ruota tutto.

E' una casa di altri tempi, la casa di Carlo, circondata dagli alberi di arancio. 
Qui tutto è esattamente dove deve essere, al suo posto. 
E per il tempo di un caffè mi ci sono sentita pure io, al mio posto, ho avuto anch'io un ruolo da portare avanti senza dubbi o esitazioni, eco di un passato lontano che non rimpiango ma che pure mi ha lasciato monca di qualcosa. 
Per il tempo di un caffè mi si è scrollato di dosso questo senso di incertezza del vivere entro confini tracciati nella sabbia che continuano a spostarsi ad ogni soffio di vento, ritrovando l'abbraccio rassicurante delle certezze di un perimetro ben tracciato.

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